Zakhar Prilepin: "I bambini sono un posto in cui ci possiamo nascondere"
Nel 2011 Zakhar Prilepin pubblica il romanzo Scimmia nera il quale, immediatamente dopo la sua apparizione, diventa epicentro delle polemiche. C'è chi segnala la comparizione di un Prilepin nuovo e sconosciuto, e chi, contestando le parole degli oppositori, prende il romanzo per un'opera sperimentale, greggia, persino incompiuta. Solo un punto era chiaro, il seguente: si trattava di un libro che (per identificare la direzione in cui si era catapultato, con il paracadute aperta delle idee, il piu grande scrittore della Russia di oggi, e per capire le metamorfosi della letteratura contemporanea russa) doveva essere letto assolutamente.
A partire dal novembre 2013, il romanzo è disponibile in italiano. Noi del Premio Gorky abbiamo incontrato Zakhar Prilepin in occasione della presentazione del suo libro a Venezia.
CM: Il suo nuovo romanzo Scimmia Nera è appena uscito in Italia, ma in patria è già stato definito dalla critica un romanzo "di fantascienza". Personalmente, credo che sia un romanzo più "filosofico": è vero che la trama prevede indagini e conversazioni del protagonista con rappresentanti dei servizi segreti, ma ciò che attrae subito il lettore sono l’affresco di sentimenti umani e la quantità di questioni filosofiche trattate. Lei cosa pensa di questi definizioni e quale adotterebbe per il Suo romanzo?
ZP: È compito dei critici scegliere una definizione e discutere di questo tema, ma non capisco quale sia il senso di cercare il genere puro. Tutto ciò che di nuovo avviene nel mondo, avviene o sulla base di una rottura dei generi, o sull'unione di uno, due, tre generi. Non ho riflettuto su una definizione; credo che questo sia un libro scritto esteriormente come un giallo, ma internamente costruito sul principio della poesia, come un grande poema lirico in cui è assente un protagonista. Ma a grandi linee si può dire che sia un romanzo famigliare, una sorta di versione fantasmagorica di Anna Karenina, in cui il mio protagonista è il vuoto che penetra nell'animo umano.
I temi principali del romanzo sono quelli del peccato e dell'innocenza come tratti non solo distintivi della natura umana, ma anche opposti, estremi. A tal proposito, uno dei personaggi, Milaev, dichiara: "Il Signore non può decretare la rovina dell'uomo: è pur sempre il suo figlio preferito. […] Il Signore non ha il diritto di affidare all'uomo impantanato nel peccato il compito di distruggere l'umanità. Lo possono fare solo gli innocenti, che non hanno morso la mela e sono del tutto privi di compassione." Perché Le sta a cuore questo tema, che compare anche nel titolo di uno dei Suoi libri più noti, Il Peccato? Inoltre, in Scimmia Nera la presenza dei bambini è preponderante. Possiamo dire che un bambino è come una tabula rasa, su cui è possibile scrivere qualsiasi cosa e dove non esiste un confine fra il bene e il male?
È molto pericoloso citare Milaev perché in effetti è un demone, è il diavolo, e nelle sue parole può celarsi qualsiasi cosa, anche un ammonizione diabolica. Inoltre, Lei ha perfettamente evidenziato come tutta la trama sia legata ai bambini, ma è una trama fantasmagorica, a volte c'è, a volte no. Fin dall'inizio cresce, cresce, cresce per arrivare alla fine a capire che non c'è niente, che è solo il riflesso della pazzia del protagonista. La mia linea riprende un po' la tradizione dei Fratelli Strugackij, i quali ritenevano che i bambini fossero una nuova generazione umana che nasce per salvarci, per salvare gli adulti. Ma per rispondere in qualche modo alla Sua domanda, credo che in effetti l'umanità viva costantemente nella percezione di certi pericoli, senza tuttavia aspettarsi alcun attacco, e da un lato riguarda ciò che è legato ai bambini perché sono il nostro ultimo approdo, sono un posto in cui nasconderci – ho un figlio e questo mi rende uomo, mi rende più puro e se è da questa parte che viene attaccato l'uomo, allora oltre i bambini non resta che Dio. Non si può inventare niente di più spaventoso. Il testo parla di questo, del fatto che un uomo ha consumato tutti i fili che lo legano all'universo e gliene rimane solo uno, suo figlio. Ma ad un certo punto scopriamo che anche un figlio può attaccare l'uomo e colpirlo in testa con un martello.
Scimmia Nera è anche un viaggio del protagonista nelle relazioni con i propri cari, in particolare la moglie e i figli. Le riflessioni e le avventure che il lettore trova nel romanzo riflettono la Sua esperienza personale? Condivide con il protagonista la paura di perdere o di non poter salvare i propri figli e quali obblighi si è posto nei loro confronti?
Sì, può essere che rifletta alcune delle mie paure, e non già verso i figli, di questo sono grato a mia moglie, bensì verso me stesso, le mie paure più segrete e recondite. Quando uscì il romanzo le amiche di mia moglie, preoccupate, cominciarono a telefonarle, a chiederle cosa stesse succedendo, se fra noi andasse tutto bene. Ma grazie a Dio viviamo un matrimonio felice già da quindici anni e nel romanzo non sono presenti eventi o tendenze personali. Tuttavia, siamo adulti, siamo tutti uomini e donne – probabilmente abbiamo dei timori e osserviamo il mondo intorno a noi. Perciò non è complicato inventare, immaginare, osservare di nascosto. Per quanto riguarda i figli, il compito che mi pongo è uno: in russo esiste la parola chanžestvo (ipocrisia, bigotteria) che si usa quando un adulto dice una cosa e ne fa un'altra e ai figli ne spiega una terza. Il mio dovere è quello di comportarmi di fronte ai figli in modo che non debbano mai dubitare che ciò che dico e ciò che faccio siano la stessa cosa. Questo è il pilastro della mia educazione. Il libro invece parla di un uomo che ha oltrepassato i limiti dei suoi obblighi.
Nel romanzo troviamo scritto: "La vita è una frana di pietre! Non cercare il senso, cerca un riparo!", ma sembra che Lei stesso non segua questo principio. Mi spiego: l'impressione è che nei Suoi romanzi si cerchi il senso o un senso della vita e alla fine di Scimmia Nera ha usato una metafora interessante: "Pur avendo il biglietto, la possibilità di un controllo mi mette ansia. Penso che sia necessario fare attenzione. Ho ancora molta strada da fare." Nella vita, chi è il nostro "controllore"? Si tratta della nostra coscienza o di qualcosa di superiore, di spirituale?
Le sono molto grato per aver individuato nel libro la frase "La vita è come una frana di pietre" perché è la mia preferita del romanzo e Lei è la seconda persona ad averla notata. Il primo è stato uno scrittore russo eccezionale, Dmitrij Bykov, molto noto, popolare e anche lui l'aveva notata subito perciò per me questo è indice di qualità, dimostra che la persona con cui parlo è molto attenta, quindi Le faccio i miei complimenti. Allora, chi è il nostro controllore? Onestamente, non saprei e mentirei se dicessi che so perché ho scritto quelle ultime frasi. È l'ultimo paragrafo in cui il protagonista viene descritto come pedante: sale in autobus, viaggia e all'inizio è come se gli dispiacesse che non esista alcun inferno – nel capitolo precedente era caduto sotto terra, nelle fognature e ora vive come prima, segue il cerchio della vita. E l'inferno nel modo in cui l'aveva dipinto Bosch non esiste, può essere che esista un altro tipo di inferno ma ciò che noi facciamo è comprare il biglietto e proseguiamo per la vita. Non ci può essere nessun controllore, il protagonista si trova già nel suo inferno, ormai non lo può catturare più nessuno, perlomeno in vita…
Ma allora perché ha questa paura recondita, perché controlla sempre di avere il biglietto?
…Non è una paura, è solo che è un uomo completamente vuoto: nel corso di tutto il romanzo arde, arde, arde e poi brucia, in lui brucia tutto: le riflessioni umane, i rapporti con la moglie e i figli, la compassione. Il biglietto rappresenta una funzione – prendo il biglietto e posso andarmene.
Un altro passo interessante del libro è rappresentato dalle parole di un altro dei personaggi, Šarov, quando dice: "È davvero assurdo credere nella saggezza dei vecchi, nella loro superiorità sui giovani. Non mi riferisco alla mostruosa vigliaccheria e spilorceria dei vecchi. Ma al fatto che sono quasi sempre i vecchi a scrivere delazioni e a compiere le peggiori bassezze per interesse, e addirittura con godimento. Per fortuna non sempre hanno le forze fisiche per la crudeltà: altrimenti qualsiasi atrocità compiuta dalla gioventù ci sembrerebbe uno scherzo." E il protagonista risponde: "[…] non mi piacerebbe vivere in un mondo dove la memoria umana non è più lunga di quella canina. Trovo interessante guardare persone che ricordano tre volte più di quanto io sia riuscito a vedere." Quale delle due opinione si avvicina di più alla Sua? I Suoi eroi agiscono negli anni '90 e 2000, ma portano in sé un’identità nazionale creatasi durante l'Unione Sovietica. Esiste un dialogo fra le nuove e le vecchie generazioni in Russia? In che rapporto si trovano fra loro?
Io mi vedo come l'antiprotagonista, ma in questo caso la mia opinione si avvicina a quella dell'eroe. Non sono comunque convinto che esista una verità legata all'età, ovvero che un uomo di novant'anni sia più saggio che a sessanta, trenta o venti. Uno può essere un genio mondiale dell'arte, della letteratura, della cultura e può essere stato estremista a vent'anni, conservatore a cinquanta e pessimista a novant'anni ma sono tre verità, tre filosofie equivalenti. Ad esempio, di Dostoevksij si dice spesso che avesse delle opinioni, che poi cambiò e quindi scrisse in un altro modo…non significa niente! Era già un genio a vent'anni! Nel rapporto fra le generazioni ci sono due pericoli: da un lato senza dubbio gli anziani non possono e non hanno il diritto di dirigere un cambiamento perché il 99% di loro è ultraconservatore e con loro il mondo non cambierebbe. Tutta la storia umana è scritta su degli spostamenti, delle esplosioni, le rivoluzioni etiche e religiose, altrimenti vivremmo in schiavitù, in un regime preistorico. Ma d'altra parte bisogna sicuramente tenere in considerazione la saggezza, la conoscenza delle generazioni più vecchie – è qualcosa con cui dobbiamo confrontarci sempre, deve rimanere lo sfondo delle nostre azioni. Agli occhi degli anziani non è possibile commettere azioni che vadano oltre il buon senso, la morale e la razionalità. In Russia ancor di più, guardo con un certo coraggio la mia generazione e vedo che troppe poche persone di quella generazione, l'ultima generazione sovietica, si sono manifestate in qualità di unità autonome e individuali. Per molti versi è una generazione che è stata sotterrata insieme all'Unione Sovietica. Da qualche tempo si parla in Russia della generazione "BMP"1 : il paese è stato diviso, si è creata della ricchezza economica ma tutto è passato accanto a questa generazione, che non è riuscita a prendere niente per sé. Al contrario, a capo dei movimenti d'opposizione si trovano coloro che appartengono alla generazione più vecchia, come Eduard Limonov, ad esempio, o fra i liberali Boris Akunin, fra i conservatori Prochanov, tutti dai sessanta ai settantacinque anni. Personalmente, io seguo Limonov in alcune cose ed essenzialmente sono più giovane di lui di molti anni e mi chiedo se saprei conservare per così tanto tempo quella passione che la nostra generazione non ha, ma che ha la loro generazione. Si tratta di una generazione molto forte, che ha visto di tutto e di più nella vita, come gli stessi Limonov e Prochanov: un'immensità di guerre, amori, rivoluzioni… È insolito, non trova? E tra la mia generazione degli anni '70 e la generazione di cui ho parlato manca completamente una generazione intermedia. In Russia abbiamo una lacuna da colmare: dove sono i cinquantenni?
1BMP – Bez menja podelili, letteralmente "se lo sono spartiti senza di me". Questa definizione è stata data da Stanislav Belkovskij, politologo e sociologo russo, secondo cui "nell'arena politica è apparsa una generazione nuova, che fino a poco tempo fa si riteneva 'apolitica'. Sono coloro che hanno terminato la scuola nei primi anni di governo di Putin. Oggi sono convinti di vivere in un paese che non dà loro alcuna prospettiva […] e la disperazione li costringe a votare per il candidato più radicale […]. È la generazione giovane che "può diventare il motore di grandi cambiamenti." (CM)
A proposito di Limonov, cui la Sua opera e il Suo stile sono stati paragonati più volte, sappiamo che stava lavorando alla raccolta delle sue poesie inedite. Come è nato questo progetto e a che punto è arrivato? Inoltre, cosa La accomuna a Limonov: l’esperienza di vita, lo stile della scrittura o una vicinanza di idee e obiettivi?
Limonov è un poeta unico nel suo genere, ma in Occidente le sue poesie non sono mai state tradotte, né presentate; lo si conosce come narratore, ma come poeta non molto. Quello in cui lavora Limonov è un settore paradossale, fantasmagorico della poesia e una quantità enorme dei suoi lavori inediti è stata conservata dai suoi amici. Sono i versi che scrisse prima di emigrare e che io ho raccolto in un intero volume a cui ho aggiunto la mia postfazione. Mentre lavoravo alla raccolta, Limonov era molto contento, si complimentava con me, leggeva e ricommentava, ma quando gli mandai il volume finito, mi disse: “Zakhar, ci ho ripensato, non voglio più pubblicarlo”. In effetti, c’erano dei versi secondari all’interno, che non erano dei migliori. Ma non mi sono offeso – mi resta comunque una miniera d’oro e solo io al mondo posseggo questa raccolta. È una grande ricchezza!
Per quanto riguarda l'esperienza di vita, lo stile della scrittura e la mentalità…non pienamente, io sono più conservatore, legato alla famiglia, inscritto nella tradizione russa. Limonov è più rivoluzionario, più radicale e più volte mi sono fatto delle domande riguardo alle sue idee su Drugaja Rossija (L'altra Russia), ma la sua coerenza, il suo coraggio, il suo carisma umani sono assolutamente indiscutibili e lo conosco da molto tempo. Ho iniziato a leggerlo nel 1988-1989 e l'ho conosciuto personalmente nel 1996. Tutti i personaggi politici della Russia hanno dimostrato di essere corrotti, di lasciarsi comprare, spaventare, annientare, invece a lui non è successo niente del genere. È rimasto così come quando l'ho conosciuto, un uomo dalla volontà d'acciaio. Poco tempo fa nel suo blog ha scritto: "La gente non vede l'ora che io crepi. Davvero non capite che non morirò mai?" E non sembra voler scherzare!
Tornando al romanzo, in un passo il protagonista chiede al medico Platon: "Quando la violenza fa di un eroe nazionale uno psicopatico collerico?". Nel leggerla non ho potuto non pensare alla figura di Stalin e di conseguenza alla Sua Lettera al Compagno Stalin, che in Russia ha provocato un grande scandalo. Da dove viene la necessità di rivolgersi ad una personalità storica così discussa?
È una lettera personale, infatti non amo che circoli all'estero, perché riguarda solo un centinaio di persone fra le mie conoscenze a cui essa è indirizzata e che avevano risvegliato in me un antico dissenso. In nessun modo avrei voluto che si diffondesse in altri paesi perché molte cose possono essere comprese al contrario. Il discorso non riguarda assolutamente Stalin come figura storica, ma Stalin come simbolo di avversione, di protesta contro quel tipo di neoliberalismo, di borghesia socio-darwinista che si realizza in Russia; il liberalismo più sciocco, sociopatico. Da noi un'enorme quantità di persone sostiene la propria legittimità a spese dello stalinismo: "avete avuto Stalin perciò ora faremo ciò che vogliamo e voi dovrete inchinarvi a noi" e di questo parlava la lettera. Ma riguarda la nostra storia russa, di questo tema ho già parlato tanto. Non sono né xenofobo, né stalinista, ma internamente ho dei dissensi e non vedo il motivo di nasconderli. Sono uno scrittore russo e voglio sentirmi libero: loro scrivono ciò che vogliono e io rispondo come voglio.
Nell'articolo successivo alla lettera, "Vergognarsi dei propri padri", Lei ha citato Esenin: "Nel mio paese sono come uno straniero". Lei si sente uno straniero in patria, nonostante il successo come letterato e come figura pubblica? Potrebbe definirsi un "cittadino del mondo"?
No, affatto, mi sento benissimo in Russia ed anche per Esenin era così. Qui si parla di un sentimento lirico, tragico, poetico. Non appena si manifesta, all'improvviso senti che il mondo ti è estraneo. Quando in Russia guardo i programmi televisivi con i nostri "padroni" oppure leggo la stampa quasi- o ultraliberale, mi sento come se vivessi in un altro mondo e le persone attorno a me, che mi vengono incontro ai meeting da Leningrado a Vladivostok si sentono esattamente come me. E quando guardiamo l'autorità e leggiamo quella stampa è come se ci sentissimo degli ospiti nel nostro paese: da una parte l'autorità, dall'altra i liberali e noi ad ostacolarli. Esiste questo sentimento, ma la Russia è composta da milioni di persone che mi sono care, così come la cultura russa e ciò che succede nel mio paese. Tutto ciò mi è caro, mi è vicino e in patria mi sento assolutamente bene. Quindi non sono affatto un cittadino del mondo: comincio a sentirmi male fisicamente quando mi allontano per più di due settimane! Mi è difficile, so che in vita non me ne andrò mai perché quando mi allontano comincio ad essere di malumore. Sono stato negli Stati Uniti, in Italia, in Francia e questi paesi mi piacciono, ma l’amore per la mia patria…quando torno sembro come impazzito, vado da chiunque, parlo con tutti, con i tassisti, per capire come gesticolano, come parlano. Brodskij scrisse che la patria di un poeta è la sua lingua; per me, invece, è anche la geografia, è tutto.
L'attività politica fa parte della Sua vita. Lei è membro di Drugaja Rossija e ha partecipato ai meeting degli ultimi due anni. Con il Suo esempio ha voluto attirare l'attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di una maggiore coscienza, ed autocoscienza, circa la situazione politica del paese? Quest'ultima può essere corretta o migliorata tramite l'intervento delle masse?
Certo, può migliorarla, anche se finora non è stato così. Però le manifestazioni degli ultimi anni sono servite a qualcosa: ho amici, conoscenti al Cremlino che mi hanno comunicato che lì fu un disastro. Non capivano quali misure prendere con cento, duecento, trecentomila persone che si dirigevano in massa alla Lubjanka. Quando Medvedev era presidente, Putin non era ancora stato eletto e non potevano permettersi né di pestare i manifestanti, né di sparare, quindi non potevano prendere delle decisioni e questa è già una rivoluzione. Se si chiede l'annullamento del voto del parlamento, significa che o si annulla il voto o si attacca il Cremlino. In quel momento le opportunità erano più che sufficienti… Oggi la gente ama vedere l'autorità, avere degli istituti di potere, la polizia, l'esercito e tutto ciò è talmente potente che è impossibile da smuovere. Forse da voi è così, ma da noi no. Io non mi ritengo assolutamente un esempio, non voglio dimostrare qualcosa, io vado alle manifestazioni come un individuo qualsiasi. La gente mi conosce e se vengono per me o per seguirmi, va bene, ma non mi reco alle manifestazioni in qualità di bandiera rossa simbolica, ci vado autonomamente e non per dire che sono Zakhar Prilepin, che ho vinto questo e quello, ecc. Mi occupo di attivismo dagli anni '90, ormai già da quindici anni, non è successo l'altro ieri. È la mia posizione, la mia preoccupazione per il futuro della Russia e probabilmente questi problemi si risolveranno in strada perché le azioni politiche legali sono sempre più complicate da realizzare.
Ma attraverso la letteratura Lei cerca di trasmettere un messaggio politico?
No, non uso la letteratura come mezzo politico, lo faccio con la pubblicistica. Come scrittore devo essere più intelligente di quando faccio politica e sarebbe stupido scrivere romanzi partitici, siano essi conservatori, liberali, sovietici, antisovietici, di qualsiasi orientamento perché lo scrittore non può essere monarchico o liberale. Uno scrittore è uno scrittore.
Chiara Munerato, Premio Gorky - 26.11.2013